mercoledì 19 febbraio 2014

Non finirò mai di arrabbiarmi

Quindi, sì, la situazione attuale mi fa rabbrividire. Penso a quanto voglia andarmene da qui ed azzerare tutto, ma mi rendo conto che non è così che si fa. Andrei da qualche altra parte all'estero e per un po' andrebbe meglio, e poi inizierei ad arrabbiarmi per altre cose. Il problema è che non smetterò mai di prendermela, non riesco a darmi pace, l'equilibrio sembra una cosa davvero lontanissima. Non capisco da dove si tiri fuori la serenità. Di cosa sia fatta esattamente. Forse non lo saprò mai. Sì, lo so, continuo a ripetere le stesse cose. Passo tantissimo tempo con me stessa, a pensare, a riflettere, per cercare di capire almeno su di me dov'è la falla, su cosa devo lavorare. E per un po', ogni tanto, scopro l'arcano. Di volta in volta il problema è che passo troppo tempo sui libri, che mangio male, che mi curo poco, che ho dei chili di troppo, che non faccio abbastanza movimento, che curo poco le relazioni con gli altri, che non sono costante. E la verità è, con mio rammarico, che più cerco di risolvere, spesso riuscendoci, queste mancanze, e più manca sempre qualcos'altro. Tutto ciò non è altro che una scusa. Ci sarà sempre altro da fare, altro da fare meglio, altro che soggetti che non se lo meritano minimamente avranno. E questo non mi andrà mai giù. Spero sempre che alla fine della giostra le persone coerenti, le persone che guardano con amore, le persone appassionate, le persone che ancora arrossiscono, le persone che amano davvero, saranno ricompensate. Su questa speranza mi rendo conto di basare spesso i principi della mia intera esistenza, il che è parecchio pericoloso, mi rendo conto anche di questo. So già che sarò tradita dal mio stesso destino e che continuerò a vedere cose che non voglio vedere. In questa città o in un'altra, in Italia o all'estero, dovunque e sempre; nelle piccole cose e nella politica, nelle relazioni o al supermercato. Nessuno mi ricompenserà mai per l'ardita speranza, a nessuno interesserà mai davvero la mia stanza, con le sue poesie appiccicate al muro e i libri sparpagliati ovunque. Nessuno più considererà l'importanza dei secondi, del linguaggio del corpo o degli oroscopi favorevoli. Bref. Non finirò mai di arrabbiarmi.

martedì 11 febbraio 2014

Cronache di una giornata- nongiornata senza Rete

Oggi ho fatto fuori due pacchi di patatine al lime e pepe rosa. Sono davvero un’indegna. Le avevo prese “per gli ospiti” o “per accompagnarli ad UNA birra, prossimamente”. Certo, come no. Dimenticavo che in casa c’era in atto un autentico disastro planetario. Un vuoto incolmabile. Una tragedia. Data, in definitiva, dalla mancanza di malvagie onde wi-fi sparpagliate per il corridoio. In parole meno poetiche ma più di sostanza, mancava internet. Il fattaccio, il momento di rottura con la Rete, insomma, era avvenuto mentre studiavo mattamente e disperatamente in camera e iniziavo a ridere tutt’a un tratto pensando all’ennesima imbecillata da mandare in giro per il web, tramite mezzi rapidi e tecnologici. Così scoprivo, mio malgrado, che il mio innovativo cellulare non rispondeva alla Rete, e tantomeno il più vetusto computer. Dunque mi avvicinavo alla scatola con le lucine (neologismo che avrebbe poi avuto modo di ultilizzare la signorina del call center, per indicarmi il modem) e con orrore realizzavo che era senza vita. Senza il barlume di una speranza o di una lucina, verde o rossa che fosse. Iniziava una lunga tiritera di telefonate, staccamento e attaccamento di cavi, connessioni lente e timide tramite l’unico aggeggio in casa disposto a concedere un po’ di Rete, il suddetto tecnologicissimo cellulare.
Improvvisamente Internet diventa vitale. Vitale ascoltare il nuovo singolo dei Pearl Jam. Vitale leggere come si aprono i vasetti dei pelati senza usare l’apriscatole. Vitale cercare parole improbabili in inglese. Panico, angoscia, paura. Sguardi nervosi in giro per la casa. Tensione che si taglia col coltello. In sottofondo una terribile Total Eclypse of My Heart pescata nei meandri di vecchie compilation, a rendere il tutto ancora più assurdo. E poi, finalmente, arriva Errico. Il tecnico! Ah! Sostituendo il modem in pensione con uno nuovo, riporta l’armonia, la gioia e le onde wi-fi in questa casa. Allontanando l’eventualità di passare altre giornate senza avere la concentrazione di fare niente, mangiando patatine come se non ci fosse un domani, pensando a tutte le cose belle da aggiornare, controllare e scaricare. Bref. Siamo tutti troppo malati di Rete.  

giovedì 6 febbraio 2014

Lettera mai consegnata per un amore adolescenziale ma neanche troppo

Caro Marco,
prima di uscire, l’altra sera, ti ho pensato per un attimo mentre mi preparavo. Ho pensato che non ci rivedevamo da qualcosa come due o tre anni, che tante volte avevo parlato di te nei miei racconti, che tante volte ti avevo ricordato tra le note di qualche canzone e in qualche conversazione lontana lontana da te. Ti avevo visto per l'ultima volta nell'aprile di uno stranissimo 2011: ero rimasta a guardarti andare via, soffermandomi sulla tua sagoma che avrei riconosciuto tra altre mille, e mai avrei pensato che avrei dovuto aspettare due anni e mezzo prima di rivederti di nuovo. Sono successe tante, tante cose in tutti questi mesi. Ho viaggiato. Ho suonato. Ho conosciuto. Ma ho amato poco, anzi quasi niente, e si sente. 
Tu che stai facendo? Mi piacerebbe tanto saperlo. Che so, leggere qualche tua poesia, sapere quando l’hai scritta, sapere che hai combinato in tutto questo tempo e se ti sono venuta mai in mente. Ho ascoltato qualche canzone del tuo nuovo gruppo, veramente niente male. Sono capitata una volta a Milano, che è ormai la tua città. Mi era quasi venuto in mente di chiamarti ma l’idea mi è passata subito di mente. Forse non avresti voluto incontrarmi per via della tua solita lascività, e mi sarebbe dispiaciuto. Inoltre non avevo più il tuo numero e non mi andava di chiederlo in giro. Però mentre camminavo per la città ti ho pensato tante, tante volte, ripensavo alle cose che mi avevi detto su Milano ed era come se in piccolissima parte l’avessi già vista, tramite i tuoi occhi. In ogni posto mi guardavo intorno e mi chiedevo a quanti metri o chilometri eri da me in quel momento. Evidentemente troppi perché non ci siamo mai incrociati. Ora sto ascoltando un pezzo anni cinquanta di Jerry Lee Lewis. Sai dove vorrei trovarmi in questo momento, e dove mi trovo se solo chiudo gli occhi? Al ballo del liceo. Ma che meraviglia che era, ti ricordi? Ricordo la tua macchina nel pomeriggio stipata di birre; tu, splendido in occhiali da sole e camicia hawaiana. E poi mi ricordo della tua chitarra blu, della sera in cui ti aspettai davanti al pub senza vederti comparire, delle mattine in cui cercavo la tua macchina nel parcheggio della scuola, dei miei orecchini neri che ti piacevano, di quando ti feci ascoltare i Cure per la prima volta.
E poi l'altra sera, dopo circa trenta mesi senza di te, mi sei comparso davanti.

-Marco!-
-Oh.. Ciao-.

Imbarazzo, emozione, fibrillazione, sentimento, amore, amore, amore. Perché eravamo così tesi, così impacciati, così sempre uguali dopo tutto questo tempo, Marco? Io non lo so. So solo che spero di rincontrarti. Ma non una volta. Cento, mille. Diecimila. Sempre.